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Published by Fondazione Gianni Bonadonna at 04/04/2022
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Nei casi di malattia avanzata l’associazione ha mostrato una sopravvivenza libera da progressione di malattia e una sopravvivenza complessiva maggiori rispetto alla chemioterapia

I risultati dello studio di fase 3 KEYNOTE-775, pubblicati di recente sul New England Journal of Medicine, dimostrano che in pazienti con tumore endometriale in stadio avanzato l’associazione dell’inibitore di tirosin-chinasi lenvatinib e dell’anti-PD-1 pembrolizumab aumenta la sopravvivenza libera da malattia e la sopravvivenza complessiva rispetto alla chemioterapia.

Lo studio ha coinvolto 827 pazienti in progressione di malattia o recidiva dopo almeno una chemioterapia a base di platino; le partecipanti hanno ricevuto la combinazione di lenvatinib (per via orale una volta al giorno) e pembrolizumab (per via endovenosa una volta ogni 3 settimane) oppure una chemioterapia a scelta del medico. Dopo un follow-up mediano di 10-12 mesi, la risposta oggettiva è risultata del 31.9% con la combinazione e del 14.7% nel gruppo trattato con la chemioterapia, il tasso di risposta completa rispettivamente del 6.6% e 2.6%; la durata mediana di risposta è stata di 14.4 mesi con la combinazione, di 5.7 mesi con la chemioterapia. Nelle pazienti nel gruppo trattato con la combinazione il tumore si è ridotto di dimensioni e c’è stato un miglioramento in tutti gli endpoint rispetto al gruppo sottoposto a chemioterapia: la sopravvivenza libera da progressione di malattia è stata di 7.2 mesi con la combinazione e 3.8 mesi con la chemioterapia, la sopravvivenza complessiva rispettivamente di 18.3 e 11.4 mesi. Nel gruppo trattato con la combinazione, il 66.5% delle pazienti ha avuto eventi avversi che hanno portato a ridurre il dosaggio, il 33% ha dovuto interrompere la terapia. «I benefici nella progressione libera da malattia e nella sopravvivenza complessiva sono emersi in tutti i sottogruppi di pazienti che abbiamo valutato, inclusi quelli con caratteristiche istologiche meno comuni e aggressive, nelle pazienti con una storia di irradiazione pelvica e in chi aveva avuto più linee di terapia precedenti», concludono gli autori.

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