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Nei pazienti con carcinoma colorettale metastatico e deficit di funzionalità del sistema di riparazione del DNA trattati con pembrolizumab come terapia di prima linea esiste un’associazione tra sede metastatica ed esito di sopravvivenza: un nuovo studio pubblicato su JAMA Network Open mostra che le metastasi epatiche, rispetto a quelle non epatiche, si associano a una sopravvivenza libera da progressione di malattia significativamente inferiore, suggerendo che il sito metastatico potrebbe avere implicazioni per il trattamento e la sopravvivenza.
Questo studio di coorte ha coinvolto 41 pazienti anziani (età media 81 anni) con carcinoma del colon-retto metastatico con deficit di funzionalità del sistema di riparazione del DNA (dMMR) che hanno ricevuto pembrolizumab in prima linea (200 mg ogni 3 settimane); il tasso di risposta globale è stato del 49%, inclusi 13 pazienti (32%) con risposte complete. La mediana di sopravvivenza libera da progressione di malattia è stata di 21 mesi e il fegato come sito di metastasi è stato associato a una sopravvivenza libera da progressione di malattia significativamente inferiore rispetto a quella di paziento con metastasi non epatiche: sono state infatti osservate risposte complete e parziali in 3 pazienti (21%) con metastasi epatiche e in 17 pazienti (63%) con metastasi non epatiche. Nonostante l’età avanzata della popolazione dei pazienti, gli effetti tossici sono risultati gestibili e simili a quelli riscontrati nei pazienti più giovani. «La maggior parte dei tumori del colon-retto è sporadica e si osserva nei pazienti più anziani, ma i dati pubblicati su pembrolizumab come terapia di prima linea per questo sottogruppo di tumori sono limitati a un singolo studio clinico, con pazienti più giovani e performance favorevole», dicono gli autori. «I pazienti più anziani con cancro sono stati spesso sottotrattati e sono sottorappresentati nelle coorti di studi clinici rispetto ai pazienti più giovani, quindi abbiamo voluto studiare l’esito della monoterapia di prima linea con pembrolizumab in pazienti più anziani. I risultati mostrano che il trattamento è stato molto efficace nella pratica clinicae, nonostante l’età avanzata dei pazienti. L’osservazione che un sottogruppo di pazienti fosse libero da malattia dopo 3 o più anni di follow-up indica anche la probabilità di una potenziale cura della malattia metastatica. Inoltre, la scoperta che le metastasi epatiche rispetto a quelle non epatiche fossero associate a una minor sopravvivenza nei pazienti trattati con pembrolizumab suggerisce che il sito metastatico abbia implicazioni per l’esito di sopravvivenza e del trattamento», concludono gli autori.
