
Tumori a origine sconosciuta, dall’Italia un modello di studio per risolvere il loro enigma
21/06/2021
Tumori a origine sconosciuta, una speranza dagli inibitori MEK
05/07/2021L’associazione di durvalumab con varie terapie a bersaglio molecolare specifico non aumenta l’efficacia e non sembra l’approccio ottimale
Combinare un’immunoterapia a base di un inibitore di PD-L1 come durvalumab con varie terapie a bersaglio molecolare specifico non modifica il tasso di risposta nei pazienti con tumore uroteliale avanzato: lo rivela una lettera pubblicata di recente su Nature Medicine, che sembra suggerire come associazioni simili non siano la strategia ottimale per la terapia di questo tipo di cancro.
Durvalumab è un anticorpo monoclonale umano diretto contro PD-L1 che ha già dimostrato di essere efficace nel carcinoma uroteliale avanzato e nel nostro Paese è approvato per la terapia del carcinoma polmonare non a piccole cellule; il BISCAY trial, coordinato dal Barts Cancer Centre di Londra, ha indagato la possibilità di associare questo immunoterapico a tre diverse terapie a bersaglio molecolare, perché il carcinoma uroteliale è caratterizzato da svariate e ricorrenti alterazioni genomiche che sono potenziali bersagli di farmaci. Si tratta del primo studio guidato dai biomarcatori nel carcinoma uroteliale metastatico; per la sperimentazione sono stati sottoposti a screening molecolare 391 pazienti con un tumore progredito nonostante una chemioterapia a base di platino e mai trattati con immunoterapici. Centotrentacinque di loro sono stati selezionati, in base alle mutazioni rilevate, per ricevere un inibitore del recettore per il fattore di crescita dei fibroblasti (AZD4547) da solo o in combinazione con durvalumab; l’inibitore di PARP olaparib con durvalumab; l’inibitore di mTORC1/2 vistusertib con durvalumab. Chi non aveva mutazioni su FGFR3, RICTOR, TSC1 o TSC2 oppure sui geni per la risposta al danno del DNA è stato randomizzato a ricevere il solo durvalumab o durvalumab con olaparib.
Il tasso di risposta è risultato variabile fra il 9 e il 36% nei diversi bracci della sperimentazione; durvalumab in monoterapia è risultato superiore al tasso di risposta ottenuto negli altri studi condotti finora (28% contro il 18-20%), mentre la risposta ad AZD4547 è risultata del 31%, inferiore rispetto a quanto osservato con erdafitinib, un inibitore di FGFR già approvato dalla FDA. In nessuna combinazione tuttavia si è osservato un significativo miglioramento del tasso di risposta rispetto all’immunoterapico o all’inibitore di FGFR in monoterapia; il tasso di risposta più elevato si è registrato per la combinazione durvalumab/olaparib nei pazienti con mutazioni nei geni per la risposta al danno del DNA ed è stato del 35,7%; tuttavia questo risultato non è stato significativamente più elevato rispetto a durvalumab da solo.
Secondo i ricercatori, questi dati confermano un’attività clinica per l’inibizione di FGFR e durvalumab, ma non indicano un’efficacia sufficiente a proseguire le indagini sulle associazioni di farmaci in trial più ampi; nonostante ciò, il ruolo della combinazione fra immunoterapia e terapia targeted nei tumori alla vescica resta da definire perché per esempio i risultati preliminari del trial NORSE, tuttora in corso e mirato a valutare gli effetti di una combinazione di durvalumab ed erdatifinib in una popolazione di pazienti simili per caratteristiche, sembrano incoraggianti e indicano un tasso di risposta del 55%, senza progressione. Il continuo miglioramento dei biomarcatori predittivi di una risposta, secondo gli autori, è perciò critico per identificare i pazienti che potrebbero rispondere meglio a farmaci a target molecolare, così come la valutazione dell’eterogeneità e clonalità tumorale e degli altri geni mutati nel tumore durante la selezione dei trattamenti.
