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02/05/2022Il complesso SWI/SNF ha un ruolo chiave per facilitare l’accesso dei potenziatori e potrebbe diventare l’obiettivo di una nuova strategia per trattare molti tumori alla prostata
In circa il 20 per cento dei tumori umani sono state individuate alterazioni nei geni che codificano per le subunità del complesso switch/sucrose non-fermentable (SWI/SNF), un complesso che rimodella la cromatina in cui una subunità chiave fornisce energia per rendere accessibile il DNA agli elementi potenziatori. Un nuovo studio pubblicato di recente su Nature ha dimostrato che la degradazione delle subunità del complesso SWI/SNF comporta la perdita dell’accessibilità fisica e del legame dei fattori di trascrizione agli elementi potenziatori, con una conseguente interruzione dei programmi degli oncogeni dipendenti dai potenziatori.
Gli autori hanno messo a punto un degradatore PROTAC altamente selettivo per entrambe le ATPasi nelle subunità di SWI/SNF, che sono un elemento chiave per le funzioni di rimodellamento della cromatina del complesso; gli autori hanno quindi sperimentato il degradatore, chiamato AU-15330, in diversi modelli di tumore alla prostata che esprimevano differenti oncogeni. I risultati mostrano che la strategia ha rallentato la crescita delle cellule tumorali e ha indotto morte cellulare, in particolare nei tumori modulati dai recettori per gli androgeni, senza alcun effetto sulle cellule prostatiche sane. I risultati inoltre indicano che i tumori dipendenti dai potenziatori sono preferenzialmente sensibili alla degradazione del complesso SWI/SNF; gli autori hanno fatto notare che si tratta della prima prova preclinica del concetto per cui un approccio mirato all’accessibilità alla cromatina da parte degli elementi potenziatori possa essere una strategia terapeutica potente nei tumori dipendenti dai fattori di trascrizione. «Il tumore alla prostata è risultato sensibile a questo degradatore: rendendo inefficiente il complesso SWI/SNF abbiamo visto un’attività preferenziale su alcuni tipi di tumore e nessuna tossicità nelle cellule e nei tessuti normali. Studi clinici condotti utilizzando composti che abbiano come obiettivo queste vie potrebbero perciò fornire dati rilevanti», ha detto l’autore dello studio, Arul Chinnaiyan.
